Platonismo negativo e «vita nella verità».

Plato

 

Platonismo negativo e «vita nella verità».

Il Platone politico e le filosofie dissidenti degli anni Settanta

Valerio Mori

          1. Diffusa convinzione è che Platone sia un pensatore “inadatto” alla filosofia politica nel nostro tempo: gli si riconosce, infatti, di essere fautore di una metafisica “sclerotizzata” in categorie astratte e tali da determinare – nella sostanza – due esiti, entrambi da respingere. Da un lato: la posizione di un paradigma complessivamente “impolitico”, strutturato sulla evasione dal campo delle “cose umane” – atteggiamento a cui segue l’accusa di “utopismo” –; dall’altro, invece, di essere l’assertore di un paradigma politico integrale, cui corrisponderebbe un’antropologia politica della scissione – cetuale – che determinerebbe la fondazione di un regime “epistemocratico” e quindi, nelle assunzioni in questa direzione più radicali, «totalitario».

          Platone come filosofo politico ha conosciuto una consistente esplorazione, particolarmente, fra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta[1]: non si intende qui perseguire il tentativo di assumere l’intero problema; piuttosto, si tenterà di impostare una riflessione tesa a mostrare che, a seconda di quale Platone si assuma, e di come lo si legga, si può pervenire a esiti notevolmente divergenti. La tesi che si tenterà di sostenere si regge su un cardine fondamentale: il centro della filosofia politica di Platone non è, per usare un lessico moderno, l’oggetto dell’azione politica e nomotetica, bensì il soggetto, quale centro di agency.

          In primo luogo si deve porre una questione di metodo che, ritengo, sia stata almeno per un verso correttamente individuata da un filosofo politico, particolarmente esperto di Platone, come L. Strauss. Strauss considera l’atteggiamento epistemologico di chi si approcci a un pensiero filosofico considerandolo come una “premessa” agli svolgimenti storico-concettuali e politici successivi un grave pregiudizio, consistente nella pretesa di poter comprendere un pensatore del passato «meglio» di come egli stesso si comprendesse, a contatto diretto con la sua propria società e con le sue problematiche. Strauss definisce tale atteggiamento «storicismo»: pregiudizio dettato da un “complesso di superiorità” consistente nella consapevolezza di situarsi a un (presunto) più avanzato stato di “progresso” sulla via della “verità” della filosofia[2].

          Mi pare che il caveat che avanza Strauss sul tema dello «storicismo» come atto di interpretazione basato sulla forza dell’equivoco per il quale post hoc, propter hoc e del suo rapporto con la filosofia politica sia da sottoscriversi.

          Anche perché a questo equivoco ne segue un altro: se lo schema ermeneutico che si applica è quello della premessa (teorica) e della conclusione (storico-politica) la conseguenza è quella che si può leggere a proposito di Platone nelle Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel, ove si sostiene che il principio socratico sia da ricercarsi nel fatto che


[1] Si veda L. Strauss, Introduzione, L. Strauss, A. Kojève, Sulla tirannide, a cura di V. Gourevitch, M. S. Roth, trad. it. di D. De Pretto, Adelphi, Milano, 2010, p. 55 ss. Ma si veda anche, per una più precoce ricezione del platonismo politico nel Novecento, G. Santayana, Platonism and Spiritual Life, Constable and Co., London, 1927.

[2] L. Strauss, Introduzione, cit., pp. 58-59, cfr. p. 58.

il pensiero capitale che sta a fondamento della Repubblica di Platone è quello che va considerato come il principio dell’eticità greca, ossia […] spirito ed ethos, lo Spirito, l’Universale […]. La determinazione opposta è la Moralità […] ciò per cui […] gli individui […] si determinano da sé. […] Questo principio della libertà soggettiva è posteriore, è principio dell’epoca moderna, civilizzata[1].

          Lo schema dello sviluppo progressivo, per tappe dialettiche, è uno schema formalmente storiografico, ma sostanzialmente storico-politico, consistente nel presupporre una civilizzazione teleologicamente disposta.

          Molta storiografia e molta filosofia successiva hanno chiaramente mantenuto questo canone sino a renderlo indubitabile; ed è nella ricezione manualistica, quando non mistificatoria, di tale canone che si giunge a esagerazioni disastrose come il Platone “socialista”[2], sino – nella prima metà del Novecento – al Platone nazista[3]; o in generale “totalitario” – è ovviamente il caso di Popper.

          Se nel primo caso si tralasciano alcune tesi sostenute nella Repubblica, ovvero che la comunione di beni e “affetti” riguardava unicamente i reggitori e non l’interezza di Callipoli, le seconde rispondevano a esigenze propagandistiche: tese (ai limiti del ridicolo e oltre) a rinvenire una stretta parentela “etnica” – e per questa presunta ragione, etica, politica, filosofica – fra i guardiani reggitori della Repubblica – con il loro ripudio della “molle vita borghese”, con la morale signorile e ascetica del sacrifico del governo dello stato nell’interesse del bene comune della “nazione” – e nelle configurazioni più deteriori[4] con le SS.

          E non sfugge all’equivoco il “partito” del Platone “liberale”, per il quale la concessione alla donna del diritto a far parte dell’élite dirigente dello stato, a condizioni di parità di accesso alle cariche rispetto agli uomini, rappresenta in nuce il prototipo di una società libera[5], omettendo di ricordare come l’istituto economico fondamentale dell’antichità (tutta, non solo quella “persiana”) fosse la schiavitù.

          A questo si collega il «terzo umanesimo» – soprattutto W. Jaeger – che nella idealizzazione della società ateniese quale forma perfetta dell’associazione umana, che Jaeger[6] eleva quindi a valore di autonomia “sovrana” dello spirito, ambisce a farsi espressione di ciò che sarà “occidentale”, una miniera, quindi, di valori appunto “sovra-storici”. Incidentalmente: riecheggia qui il topos della contrapposizione tra “Grecia come mondo della libertà” e – genericamente – Oriente come mondo dell’asservimento, tema hegeliano e per altri versi schmittiano, specie nell’opposizione terra-mare[7], che avrà ampia fortuna nella declinazione (anche contemporanea) del mito dello “scontro di civiltà”.

          È dunque, in ogni caso, per tornare al punto di partenza, una questione metodologica, epistemologica a porsi: la mia idea di fondo è che il modo più fruttuoso di interrogare il Platone politico nel Novecento è tentare di applicare il principio di carità ermeneutica per come lo teorizza Donald Davidson, per il quale un dialogo è tale unicamente se paritario, e ciò è possibile, in quanto dialogo e non monologo. Per usare uno schema della filosofia del Novecento (Husserl) si dovrebbe tentare – cioè – una epoché culturale: sospendere il giudizio per tentare la comprensione del fenomeno nell’atto del suo manifestarsi; e il fenomeno (per andare alle brevi) è questo: la filosofia politica del Novecento vuole intrattenere un rapporto (spesso deformato, ma questo, nell’autointerpretazione del pensiero filosofico, conta poco) con Platone, ma è un rapporto quasi sempre unilaterale, una lettura con categorie inadatte. Cioè una prevaricazione, figlia anch’essa della storiografia filosofica di marca hegeliana, che  consiste nel sovrapporre categorie storiche, se non addirittura cronologiche – prima e dopo – a categorie “assiologiche” – migliore e peggiore – in termini di minore o maggiore consapevolezza storico-politica[8].

          Se pensiamo ad esempio alla ricezione arendtiana di Platone, vediamo come la sua preoccupazione, il recupero di una dialogicità autentica (e il suo concetto di “autenticità” è mutuato dalla celebre – e discutibile – assunzione heideggeriana della a-letheia) vediamo come la teoria delle idee è interpretata come la presa di possesso delle elites sulla vita politica da un lato; e il tentativo di bloccare il divenire delle cose politiche in uno schema fisso ed escludente: questo è un esempio di incomprensione del platonismo. Il modello – dicevo – è Heidegger che vede in Platone l’iniziatore della metafisica dualista come risoluzione dell’Essere (politico, in questo caso), con l’ente: la iper-cosa, diciamo così, che è l’idea.

          Io credo che il significato che il platonismo politico, almeno per l’epoca presente, che è l’epoca del post-moderno come dominio della tecnica, sia un altro; e ben più positivo. Proverò a discuterne attraverso il più socratico dei filosofi politici del secondo Novecento: Jan Patočka.

          2. Vi è almeno un altro filone di studio del Platone politico del Novecento, formatosi oltre-cortina in modo principale, e cioè a contatto diretto – ed esistenziale – col problema totalitario, che ha prodotto esiti sostanzialmente opposti a quelli osservati.

          È la filosofia come «cura dell’anima» di Jan Patočka, che si delinea in opere come Platone e l’Europa, in Europa e post-Europa, e che pone al centro della sua riflessione e della sua militanza in Charta77 una interpretazione del pensiero di Platone, proprio a partire dalla assunzione che l’immanenza metafisica abolisce la “pluralità”, ma ciò è così solo in funzione del riconoscimento di una presa immanentistica quale movente e sviluppo di quella filosofia. E cioè storicisticamente.  Ciò è dal suo punto di vista un fraintendimento essenziale di Platone, che è un pensatore politico e morale da leggere in «negativo», e ciò vuol dire non dal punto di vista dell’oggetto, bensì del soggetto. Non dalla prassi o dall’azione in quanto è immanenza, perciò: ma dall’agency interrogante come possibilità sempre presente, affermazione di trascendenza.

          Ora, non manca chi individua proprio nella ricerca intorno alla «vita buona», e cioè nello spettro del “pratico” il carattere specifico della filosofia antica[9]. Anche grazie ad Aristotele, quello dell’Etica nicomachea inizia, già nell’alveo dell’antichità, un progressivo distacco da quella visione[10].

          La modernità reca i segni di quell’avvenuta scissione, che si presenta in una distinzione che Jan Patočka propone nel 1975, distinzione che era già in incubazione da tempo nel suo pensiero[11] e che ebbe, come esito, la sua adesione, con il ruolo di portavoce, a Charta77: da una parte l’«intellettuale», dall’altra l’«uomo spirituale».

          Il lessico patočkiano non deve trarre in inganno: l’«uomo spirituale» non è una personificazione dell’antimodernista reazionario, tendenzialmente estetizzante che, in volontario isolamento, persegue la sua propria unicità come opera d’arte esistenziale, alla maniera ad esempio di Ernst Jünger.

          L’«uomo spirituale» è il dissidente, è pienamente calato e attivo nella realtà politica, ed è precisamente colui che pone in essere un atteggiamento pubblico contro-tendenziale rispetto all’andamento del fatto politico e sociale[12].

          L’appellativo di “Socrate di Praga” accompagna Patočka dal 13 marzo 1977, giorno della sua morte, una morte paradigmatica, sopravvenuta a seguito di prolungati interrogatori da parte della polizia politica della allora Cecoslovacchia, l’ultimo dei quali – subito in ospedale – gli fu fatale[13]. Così Paul Ricoeur: «È perché non ha avuto paura che Jan Patočka […] è stato […] letteralmente messo a morte dal potere»[14]. Se è chiara l’analogia con il processo celebratosi in Atene nell’anno 399 a.C., lo stesso Ricoeur mette in guardia dal restringere il campo d’indagine a questa semplice consonanza, che se non meglio indagata, potrebbe facilmente scivolare nel campo dell’aneddotica, sia pure la più “nobile”.

          Egli parla infatti di «socratismo politico»: il tema sollevato è allora quello di una medesima tendenza rintracciabile in alcuni protagonisti della filosofia politica occidentale, il cui senso va ricercato in almeno due aspetti generali: il dialogo con i classici e l’edificazione della filosofia politica sulla base di una visione non storicistica dell’essere umano. Quest’ultima attitudine è da Patočka individuata, appunto, in Platone e nel platonismo, che egli combina con la fenomenologia di Husserl e con il pensiero di Heidegger.

          L’attenzione di Patočka è tutta centrata su due aspetti: la nascita del concetto “occidentale” di anima, e l’interrogazione critica e sistematica – niente affatto orientata alla semplice “messa a nudo” dell’autenticità dell’altro, come avrebbe, invece, successivamente preteso Arendt – alla ricerca della verità, intesa questa come purificazione dal falso[15].

          Dal punto di vista di Patočka, Socrate è il precursore della dottrina platonica delle idee, nel senso che la sua ricerca della definizione del “che cos’è” di un determinato contenuto di realtà, lungi dal rappresentare un mero strumento per convincere il deuteragonista ad aprirsi, per “mettere in comune” la sua doxa, è effettivamente diretto alla confutazione, che ha certamente anche degli importi morali, ma questi seguono alla «vergogna della contraddizione», e cioè all’estrazione di una affermazione che si rivela insostenibile perché falsa[16].

          Si pone con ciò una questione filosofica radicale, consistente nel problema della ipostatizzazione metafisica, che Arendt, sulla scorta di Heidegger, ritiene inevitabile e anzi programmatica nella filosofia politica platonica, che Popper neppure mette in discussione, e che Patočka ritiene invece non solo non necessaria, ma mistificatoria dell’autentico spessore filosofico-politico di Platone.

          Il centro del problema è dunque la questione delle idee “ipostatizzazione metafisica”, e che invece Patočka assume come non enti. Questo è il significato del “platonismo negativo”, nel quale si radica la distinzione fra l’«uomo spirituale» e l’«intellettuale». La tesi di fondo del “platonismo negativo” di Patočka è che la filosofia di Platone non è metafisica, se con metafisica si intende “riduzione del reale a principio”; e così, per conseguenza, le sue articolazioni politiche.

          Il senso del negativo patočkiano[17], consiste in una presa di possesso del rapporto con il mondo in quanto esso appare, una presa di possesso, si badi, non del mondo ma della modalità delle sue manifestazioni, cui si accede per un atto di negazione, o per dir meglio, di opposizione.

          Tale opposizione origina da una insoddisfazione sull’esistente, insoddisfazione che è a sua volta l’attestazione di una impossibilità di dominare, ossia di racchiudere in un unico sguardo, ciò che si manifesta[18]. Questo atto di negazione[19], non coincide con un atteggiamento scettico e quindi con un eventuale ripiegamento sulla «terza persona»[20], bensì con una presa di distacco che deriva appunto dalla facoltà di porre in questione il mondo, che determina l’affermazione, nell’atto del negare, di una alterità dell’umano rispetto a ciò non è umano; alterità, dunque, radicale.

          È una affermazione di trascendenza, di essere altro dall’ente.

          Lo statuto di alterità si rende chiaro, nella declinazione sostanzialmente fenomenologica che Patočka svolge, qui come altrove, in una possibilità che è al contempo Erlebnis – «vissuto significativo» – e formazione dell’agenzialità critica, interrogante. Infatti, l’uomo è un fenomeno al contempo privilegiato e condannato, nel senso che è l’unico ente al quale il mondo si manifesti come istanza di totalità, ma tale manifestazione è al contempo manifestazione della propria contingenza, del proprio essere fenomeno fra fenomeni, proprio perché fenomeno auto-cosciente[21].

          Nell’attestazione della trascendenza – dell’essere altro dall’ente inerte – si radica il problema che dà avvio alla filosofia nella sua forma peculiare: è con Socrate che il problema dell’apparire si fa questione filosofica, la quale consiste nella «contraddizione» fra il «rapporto con la totalità» in quanto essa si manifesta, e perciò è «inalienabilmente propria» all’uomo e – al contempo – «l’impossibilità di esprimere tale rapporto nella forma di un comune sapere finito»[22]; ciò che, per contro, ambisce a ottenere la metafisica.

          Tale distanza fra il fenomeno cosciente di sé e della propria limitatezza è – nell’interpretazione di Patočka – la radice del pensiero metafisico, che si dispone al tentativo di colmare tale distacco includendo l’uomo nel processo, unificandolo al resto dell’esistente. Ciò perché il telos della metafisica, quale che ne sia la concreta declinazione, è porsi come «scienza della totalità»[23].

          Tale attitudine si manifesta altresì – qui Patočka aderisce nella sostanza ad Heidegger – nella pretesa di dominio che sul mondo esercita la tecnica, dominio destinato a risultare impossibile, e foriero di esiti potenzialmente catastrofici[24], ma nella sostanza, la questione eminentemente metafisica è la questione «del fondamento», l’interpretazione di questo plesso è perciò il problema: il principio che assicura il tutto «essente», che nell’epoca della tecnica «vale come essente solo e soltanto se è assicurato[a] per il rappresentare in quanto oggetto calcolabile»[25], è ciò che implica l’unificazione processuale dell’ente che si manifesta e della manifestazione stessa.

          Ma a differenza di Heidegger, Patočka non vede un mondo pre-platonico, il mondo dell’essere (che Heidegger scrive con la maiuscola e in molti altri modi, e che Arendt, analogicamente, per i suoi scopi in Vita activa, trasfigura nella immediatezza della relazionalità della polis) libero dal “peso” della metafisica, ciò perché, secondo Patočka, Platone non essendo un pensatore metafisico, pone al centro della sua filosofia il medesimo centro che pose Socrate: la cura dell’anima e non la pretesa di dominare l’essere attraverso la presa sull’ente.

          Patočka, ben addentrato nella filosofia di Platone, conoscitore acuto di Aristotele, è perfettamente consapevole che, dopo il Parmenide, la teoria delle idee per come essa era formalizzata in precedenza, scandita dalla coppia chorismos (separatezza) e methexis (partecipazione) viene da Platone sostanzialmente abbandonata[26]; e però, ciò che a contatto con le idee era emerso, la psyche, non deve seguire il destino delle idee – uscite sostanzialmente di scena –, è un “guadagno” che resta, indipendentemente dagli esiti della questione delle idee, che del resto Patočka considera già ab initio una tematica duplice: sin dalla Repubblica, con il machroantropos-città modellato sull’idea di giustizia, la psyche e le idee compongono un articolato campo apparentemente unico, ma sono già distinte.

          In Platonismo negativo l’assunzione patočkiana è chiarissima e gravida di conseguenze. Infatti, il chorismos non viene interpretato come separatezza fra enti e idee e cioè fra enti e “super-enti”, ma come completa privazione di rapporto con altro: «il chorismos è separazione, distinzione in sé e per sé»; dietro il mondo empirico, cioè, non si trova una «nuova terraferma», eventualmente più ferma: si trova semmai l’esperienza della possibilità di prendere distacco dal mondo.

          In parole di Patočka «il mistero del chorismos è il mistero della libertà; l’esperienza di una distanza rispetto alle cose reali, di un senso indipendente dall’oggettivo e dal sensibile»[27], tale per cui la «seconda navigazione» – quella del Fedone come quella del Filebo – consiste nella possibilità di assumere uno sguardo discosto dalla mera datità senza il quale non è possibile una visione storica. Infatti, ciò «che […] ci permette di scorgere più di quel che percepiamo», è lo stesso che rende l’essere umano capace di trasformare se stesso, e cioè scoprirsi un «essere storico», che si distingue da «ciò che è dato; da ciò che è compiuto e irrecuperabilmente perso e da ciò che ancora non esiste».

          La forza necessaria all’allontanamento da ciò che è meramente dato, «nella terminologia platonica, quindi, la forza dell’idea […] [è] una forza da cui scaturiscono tutte le nostre capacità di lottare contro la “mera realtà”, che altrimenti ci si imporrebbe come una legge assoluta»[28].

          L’idea trae la sua rilevanza dall’essere una possibilità sempre ulteriore, e in quanto tale è sistema aperto: e anzi, è “non-sistema”. Proprio perché ulteriore l’idea non è oggettivabile – pena le aporie del Parmenide – essa non può essere inclusa in un sistema gerarchico di derivazione, poiché, come comprende Aristotele, l’ulteriorità nella determinazione – e cioè la cosalità – implica la sua stessa impossibilità (paradosso del “terzo uomo”); e proprio per questo l’esperienza della libertà consistente nella presa di distanza dall’ente è una esperienza par excellence anti-metafisica, perché qualunque tentativo di racchiudere ciò in un processo che ha un inizio e deve avere una fine gli è costitutivamente estraneo (di nuovo: terzo uomo).

          Ciò perché «L’idea è precisamente un potere de-oggettivante, un potere di distanziamento rispetto a qualsiasi oggetto possibile»[29]; e per tanto anche rispetto al quadro politico dato.

          Proprio per questo le idee non coincidono, sostiene Patočka, con degli «entia imaginaria (secondo l’espressione di Kant)»[30], poiché questi assumono il valore di puri predicati nominali attraverso la combinazione concettuale, addirittura immaginifica, di cose esistenti: per tanto non implicano, e semmai suppongono, il potere di negazione (che è infatti ben altro dalla mera possibilità combinatoria) che l’idea manifesta nel suo non essere oggettivabile a partire dall’empirico.

          In breve: «l’idea […] è la sola non-realtà che non può essere esplicata a partire da semplici realtà. L’idea non è un oggetto di contemplazione dal momento che non è affatto un oggetto». È semmai «appello all’oltrepassamento delle oggettività e delle cosalità date», appello a superare la dimensione del declino implicata nell’insoddisfazione per l’esistente dato[31].

          Tale presa di distacco è l’affermazione dell’essere altro da ciò che è meramente dato che non può che coincidere con l’ente che è nell’atto di manifestarsi; l’alterità dell’umano è appunto l’esperienza della possibilità di trascendere il dato: l’esperienza della trascendenza, nella negazione opposta al mero dato, è perciò l’esperienza di nessun «fatto […] nessun oggetto»[32]; e per tanto, ciò che emerge dal rapporto con l’idea, non è la positività oggettuale, bensì la possibilità soggettuale di superare l’immediatezza dell’esperienza sensibile. Ecco perché, in essenza, la filosofia di Platone, come quella di Socrate è in opposizione a quella di Democrito[33], perché è posizione della massima libertà[34]; e la massima libertà è la «cura dell’anima»[35].

          La psyche è essenzialmente movimento: lo è nell’atto di accostarsi al conoscere, lo è di fronte alla decisione sul come vivere[36]; il dualismo, lungi dall’essere l’ipostatizzazione artificiosa e antipolitica che vede Arendt, oppure la veste surrettizia di una esigenza gerarchico-sociale di ispirazione reazionaria di Popper, è «in primo luogo […] [quello] delle possibilità fondamentali in cui l’uomo da sempre esiste», consistente nella dualità delle possibilità esistenziali: o l’adesione supina al dato; o la ricerca del compimento di sé nell’atto di dichiararsene altro. La prima possibilità indica il declino, la seconda il riconoscimento dell’agenzialità[37].

         

          3. Patočka, a differenza di gran parte dei filosofi politici del Novecento, ha una preparazione filologica accurata e risalente[38], estrae dalla tanatologia del Fedone e del Gorgia il nucleo essenziale di ciò che è la psyche platonica, con la presa d’atto della facoltà agenziale che, nell’atto di ammettere la possibilità di una forma pura di alcunché, si  fa propriamente umana, è «concepita come ciò che si muove autonomamente»[39]. Così Patočka: «le tesi platoniche del visibile e del non visibile non si possono concepire nel senso oggettivo della scienza moderna […] ma nel senso nel senso del fenomenicamente vissuto […] dove la psyche agisce in coincidenza col corpo e mediante esso»[40] –; non si tratta per tanto di apprendere qualcosa, ma di conoscere sé.

          In Platone e l’Europa: «l’anima percorre l’universo per diventare ciò che deve essere. La cura dell’anima non ha come scopo la conoscenza, ma la conoscenza è un mezzo per l’anima al fine di diventare quello che può essere»[41]. La finalità della cura dell’anima è acquisizione della coscienza di auto-movimento, agenzialità proprio in ragione della possibilità della negazione dell’empirico, che è affermazione di alterità dall’altro dall’umano.

          Il carattere agenziale implica, unitamente al bisogno di verità, che non può strutturalmente essere soddisfatto a causa dell’«essere in situazione» dell’uomo come centro dell’apparizione fenomenica[42], implica la responsabilità, che ha un connotato certamente etico, ma anche e in primo luogo politico; perché la scoperta del carattere agenziale della psyche è costante coscientizzazione critica nei confronti del dato.

          Ciò perché il dualismo non è – come si è visto – quello fra idea ed ente empirico, ma quello fra possibilità esistenziale pienamente intrapresa, nell’atto di opporsi a ciò che si manifesta, oppure assumerlo – dogmaticamente – come orizzonte conclusivo: «la genesi ideale della comunità è quindi un pezzo dell’autocoscienza, è la dottrina dell’armonia nell’individuo e nella psyche», perché si origina dalla presa d’atto della contraddizione, che è disunità con sé, ossia con il «problema del potere spirituale e dell’autorità»[43].

          In uno scritto intitolato Ideologia e vita nell’idea ne abbiamo una chiarissima rappresentazione: «L’ideologia […] afferra l’uomo e lo vincola dall’esterno, si impadronisce di lui come una forza determinata, entro un sistema di forze universale, che va utilizzata per uno specifico fine sociale […] cosicché esso solo [scil. il sistema sociale] conferisce a tutto il resto, inclusi la volontà e l’attività dell’individuo, il suo significato»[44]. È appunto il significato politico del dualismo interpretato alla maniera di Platonismo negativo; e il termine “ideologia” non va perciò, qui, equivocato: Patočka include nell’ideologia tutto ciò che esercita una “pressione” de-umanizzante nel senso appunto dell’adesione supina al dato; l’uso del termine è perciò da assumersi nella sua possibilità semantica più estesa, comprendente quindi l’ideologia scientista, quella nichilista, quella consumistica.

          L’adesione al carattere negativo dell’idea comporta una ferma opposizione al dato in vista del perseguimento della unitarietà e coerenza di comportamento e pensiero; l’adesione all’ideologia – data la sua esteriorità – implica la mera conformazione a un codice di comportamento, una sorta di abito protettivo che tuttavia non influenza minimamente la profondità dell’uomo, il quale può ben essere quel che era, una volta tramontata l’ideologia e quindi svestiti i panni indossati[45].

          Patočka costruisce la sua adesione al dissenso articolandola a partire da questa radice; la si trova tematizzata in una conferenza del 1975, che riprende e sviluppa i temi già affrontati in Platone e l’Europa, nella direzione dell’impegno politico diretto, che è ciò che distingue l’«intellettuale» dall’«uomo spirituale»: formalmente svolgono le medesime funzioni, ma mentre per l’uno il mondo è ciò che si dà, e semplicmente si accetta, per l’altro il mondo non è ciò che si dà ma la possibilità stessa del darsi. La riflessione si fa perciò «[…] progetto di vita»[46] e quindi disegno politico: Patočka pone categorialmente la distinzione fra «intellettuale» e «uomo spirituale»[47], entro la quale sviluppa la sua posizione circa il tema della politica e del compito del filosofo a proposito di essa: questa è la ragione della sua scelta di militare in difesa dei diritti umani, civili, politici e sociali facendosi protagonista dell’esperienza di Charta77.

          Non un impeto occasionale ma la coerente conclusione di una vicenda che è tutta filosofica, la quale si risolve nella scelta di intendere il suo ruolo di filosofo nei termini in cui si sviluppa il discorso intorno all’«uomo spirituale», il quale ha di fronte a sé – ove si trovasse a confrontarsi con un potere che neghi la libertà – la via del «sacrifico».

          L’uomo comune teme indubbiamente la morte, e del resto condivide senza esitazioni il punto di vista che presiede alla dinamica dell’accumulo: questa è infatti conseguenza della presa dall’esterno, o in termini patočkiani «ideologia» e può ben essere abbracciata nell’atto di considerare come ineluttabile la presenza della condizione presente; l’uomo spirituale è tale perché, avendo egli liberamente accettato di vivere allo scoperto, avendo risposto al richiamo della problematicità che emerge dall’esperienza del negativo, rifiuta di cedere tanto all’«empirismo ingenuo» – inteso questo come assunzione del limite della datità come insuperabile – quanto alla scepsi e al nihilismo.

          In questo gesto è l’affermazione dell’apertura, la quale porta alla piena esplorazione della libertà proprio in quanto rifiuto del condizionamento esteriore, sia esso la forma dell’io sociale, sia esso un potere repressivo. Il concetto di sacrificio – col quale si spiega il coinvolgimento di Patočka nel dissenso politico – trae origine dal rifiuto del mondo come evidenza, come «una legge assoluta» e per tanto del potere politico come imposizione: la problematica, che è filosofica e perciò esistenziale, che sottende alla scelta del dissenso coincide con l’opposizione al fenomeno.

          L’esperienza del negativo, anziché svalutare la vita, la riempie di senso, al punto che la rinuncia al mondo non significa affatto rinuncia a tutto; ma può significare estensione della vita e superamento del limite della morte nel sacrificio, il quale riempie, per l’appunto, di senso la vita stessa: «l’uomo spirituale […] non può avere paura»[48].

          La controprova è rappresentata proprio dagli scritti per Charta77, nei quali Patočka rende chiara la premessa filosofica e la conseguenza politica della sua scelta:

La morale, d’altronde, non esiste affinché la società funzioni, bensì semplicemente affinché l’uomo sia uomo. Essa non può essere definita in funzione delle esigenze dell’uomo, dei suoi desideri, delle sue tendenze e aspirazioni. Avviene, piuttosto, contrario: è la morale che dà all’uomo la sua misura[49].

Patočka si dichiara consapevole del fatto che una simile prospettiva possa apparire in qualche modo sfumata, naïf agli occhi di molti; ma resta una testimonianza incontrovertibile della profonda incisività, nella concreta storia del suo paese e della stessa Europa, della sua attività, del suo agire significativo, di «uomo spirituale».


[1] Cfr. G. W. F. Hegel, Platone (secondo l’edizione postuma del 1833 delle Lezioni sulla storia della filosofia, curate da Karl Ludwig Michelet), Bompiani, Milano 1998, rispettivamente p. 53 [in orginale, pp. 169-170]; pp. 291-293 [277].

[2] Ma forse giova ricordare che lo stesso K. Marx, Il capitale, a cura di D. Cantimori, Editori riuniti, Roma, 1970, Libro I, p. 410, considera la Repubblica qualcosa come l’idealizzazione di un rigido sistema castale, letteralmente lì definito «egiziano»; e che per tanto sconsiglia di arruolare Platone fra i “precursori” del pensiero socialista.

[3] Cfr. M. Vegetti, Un paradigma in cielo, cit., pp. 76 ss.; che giustamente parla di «usurpazione nazista». Sul Platone “socialista” si può ancora vedere M. Isnardi Parente, La «Repubblica» di Platone in Germania nel secolo di Marx, in «Belfagor» 6 (1980), pp. 617-632; ancora Vegetti, Un paradigma in cielo, cit., p. 105 ss.

[4] Cfr., in generale sull’appropriazione nazista di Platone, L. Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino, 1980.

[5] Cfr. Th. Gomperz, Pensatori greci, cit., vol. III, p. 432 ss.

[6] Cfr. W. Jaeger, Paideia, cit., pp. 4-5. Su questo non concordo con Vegetti, Un paradigma in cielo, cit., p. 70; ma rinvio al mio articolo «Terzo umanesimo» e filosofia del diritto, cit.

[7] Cfr. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, trad. it. G. Gurisatti. Con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2002; Id., Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 2011, p. 207 ss.

[8] Chiare e condivisibili, in questo senso, sono le pagine di M. Vegetti, Un paradigma in cielo, cit., p. 45 ss., dedicate appunto alla comprensione hegeliana di Platone.

[9] Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1988; Id., La filosofia come modo di vivere, Einaudi, Torino, 2008.

[10] Cfr. J. Patočka, Platonismo e politica, in Id., Living in Problematicity, Oikoymenh, Praha, 2007, p. 15: «Potrebbe risultare assai difficoltoso vivere nella filosofia, perché la filosofia è la lotta incessante contro la direzione naturale della vita». Cfr. Id., Equilibre et amplitude dans la vie, in Id., Liberté et sacrifice. Écrits politiques, Millon, Grenoble, 1990, p. 28: «Noi prendiamo qui l’“avversità” nel suo senso letterale, di ciò che va contro la tendenza spontanea della natura umana e si serra in sé» (tad. it. mie). 

[11] Cfr. in particolare J. Patočka, Platonismo negativo, a cura di F. Tava, Bompiani, Milano, 2015.

[12] J. Patočka, L’uomo spirituale e l’intellettuale, in Id., La superciviltà e il suo conflitto interno, a cura di F. Tava, UNICOPLI, Milano, 2012, pp. 157-170; p. 157.

[13] Cfr. V. Mori, Libertà, politica, diritto. Un dialogo con Ivan Chvatik, Direttore dell'Archivio Jan Patočka, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 4, 2013, pp. 567-582.

[14] P. Ricoeur, Patočka, Philosopher and Resister, in “Le Monde”, 19 marzo 1977, citato in R. Jakobson, Dal Curriculum vitae di un filosofo ceco, in Jan Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino, 2008, p. 177.

[15] Si veda ad esempio ivi, p. 369 ss.; ivi, pp. 293-295, dove si ricostruisce la pratica socratica dello elenchos e si contesta quella che sarà la tesi di Arendt, su cui mi sono già espresso, ovvero quella del Socrate “pensatore emozionale”, preoccupato di preservare l’empatia con l’interlocutore, affinché egli sia “autentico”. Cfr. su questo M. Cangiotti, L’ethos della politica. Studio su Hannah Arendt, Quattroventi, Urbino 1990, pp. 187-193, particolarmente p. 189.

[16] Cfr. J. Patočka, Platonismo negativo, cit., p. 32, in cui si afferma espressamente che in «Platone» è «compreso e superato anche Socrate».

[17] Cfr. S. Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, in H. Arendt, Socrate, cit., pp. 99-123; p. 116 ss.; Ead., I nuovi demoni, cit., p. 333 ss.

[18] Cfr. J. Patočka, Platonismo negativo, cit., p. 79; Id., Platone e l’Europa, Vita e pensiero, Milano, 1997, p. 69 ss.

[19] Cfr. F. Tava, La verità nel mazzo di ciò che è. Intorno al “platonismo negativo” di Jan Patočka, in J. Patočka, Platonismo negativo, cit., pp. 9-72, p. 21.

[20] Cfr. V. Mori, Mondo naturale, cit., p. 117 ss.

[21] Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., pp. 63-64.

[22] J. Patočka, Platonismo negativo, cit., p. 111.

[23] Si vedano le caute riflessioni di R. Roty, The Seer of Prague, cit.

[24] Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27; p. 20.

[25] Cfr. M. Heidegger, La tesi del fondamento. Conferenza, in Id., Il principio di ragione, cit., pp. 195-218; p. 202.

[26] Cfr. J. Patočka, Platonismo negativo, cit., p. 183.

[27] Ivi, p. 185.

[28] Ivi, pp. 187-189 (corsivo mio).

[29] Ivi, p. 201.

[30] Ivi, p. 203.

[31] Ivi, p. 207 (corsivi dati).

[32] Ivi, p. 159.

[33] Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., p. 105 ss.

[34] Cfr. J. Patočka, Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra, in Id., Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino, pp. 132-153, p. 145 ss.; R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino, 2016, p. 38. Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1984, Feltrinelli, Milano, p. 119; S. Forti, Letture socratiche, cit., p. 116; C. Croce, L’ombra di Pólemos, i riflessi del bios. La prospettiva della cura a partire da Jan Patočka e Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 66 ss.

[35] Platone, Apologia di Socrate, 29 E.

[36] Ivi, pp. 30-32.

[37] J. Patočka, L’anima in Platone, cit., p. 29.

[38] Cfr. M. Cajthaml, Nota biografica su Jan Patočka, in J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., pp. 253-263.

[39] Ivi, p. 35.

[40] Ivi, p. 33 (corsivo mio).

[41] J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., p. 110.

[42] Ivi, pp. 63-64.

[43] J. Patočka, L’anima in Platone, cit., pp. 46-47.

[44] J. Patočka, L’ideologia e la vita nell’idea, in S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004, pp. 33-42; pp. 33-34.

[45] Cfr. V. Mori, Charta 77 o del dissenso “socratico”, in G. Battioni (a cura di), Il pluralismo al bivio. Popolo, élites e istituzioni fra economia e politica, Nuova cultura, Roma, 2017, pp. 167-202.

[46] Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., p. 64.

[47] Cfr. J. Patočka, La superciviltà il suo conflitto interno, cit., pp. 157-172.

[48]J. Patočka, L’uomo spirituale e l’intellettuale, cit., pp. 169-170.

[49] J. Patočka, Che cos’è e che cosa non è Charta ’77, in Id., La superciviltà e il suo conflitto interno, cit., p. 174.